Sono gli Oragravity (duo formato da Umberto Iervolino e Federica Luna Vincenti) a firmare la colonna sonora de L’Ombra di Caravaggio di Michele Placido, nelle sale dal 3 novembre. La colonna sonora (edita da Edizioni Curci e da Goldenart Production) è invece disponibile dal 4 novembre. Federica Luna Vincenti si ritrova così in un duplice ruolo: da un lato compositrice e dall’altro produttrice della pellicola. Due binari all’apparenza paralleli che, per L’Ombra di Caravaggio, hanno finito per unirsi e per creare mondi non così distanti tra loro, come ci racconta la stessa Federica in questa intervista.
Da un lato autrice della colonna sonora e dall’altro produttrice: come ti sei trovata in questo duplice ruolo e in che modo ti ha aiutato a far andare le cose di pari passo?
«In effetti, solo ora ho capito il motivo per cui ho fatto entrambe le cose. La musica è matematica e io coi conti me la cavo. Penso che questi due mondi che si sono incontrati in realtà non siano molto differenti. So che sembra poco artistico produrre, immaginiamo sempre che il produttore debba essere legato all’aspetto economico. Non è solo quello, anzi oggi più che mai c’è bisogno di produttori artistici. Soprattutto all’inizio e nella fase legata alla scrittura. E poi c’è la creatività dei reparti, che devono parlare tra di loro, le persone da far incontrare e le scelte che fanno nascere la meraviglia di quaranta quadri riprodotti. C’è un aspetto molto artistico nell’intero prodotto».
Quindi la colonna sonora è subentrata in un secondo momento?
«Sì, per caso. Io e Umberto già lavoravamo insieme per un altro progetto e Michele Placido, ascoltando alcuni brani, ha detto: “Ci sono strumenti interessanti. Perché non fate voi le musiche?”. Non era previsto e la proposta inattesa ci ha riempito di responsabilità. Abbiamo dovuto capire la linea da adottare. Non era semplice perché parliamo pur sempre di un prodotto legato al ‘600. L’Ombra di Caravaggio è un film che ha già una connotazione, perché in parte si rifà a Monteverdi e altri musicisti dell’epoca. Con Umberto, dopo la sceneggiatura e svariate riunioni col regista, abbiamo deciso di andare avanti con la nostra personalità, di non andare a fare una colonna diversa da noi e dalle nostre intenzioni. È quindi una colonna sonora un po’ particolare, che ha dentro tantissime suggestioni classiche. Gli archi ne sono la prova. Ma ci sono anche molte ritmiche pulsanti che rendono tutto molto più dinamico. E contiene anche suoni adottati nel film, come catene e acqua. Il film ci parlava in quel modo».
Come avete lavorato?
«Siamo partiti dai veri rumori e dai veri oggetti visti sul set. Chiedevo proprio agli attrezzisti di darmi le catene per realizzare i suoni e riprodurli. Le note, in base al movimento della catena, riproducevano un suono. Questo meccanismo è legato a un modo di fare musica già noto, non ci siamo inventati niente, ma abbiamo adottato all’interno della colonna dinamiche strane e dissonanti, che ci hanno fatto capire che dovevamo anche fare silenzio. Il musicista tende a riempire la scena, invece i silenzi a volte sono musica».
Un esercizio complicato.
«Ci siamo ritrovati di fronte a un grande sacrificio. Nella scena della morte della Vergine, dove c’è il quadro in composizione, c’è un momento apice di emotività musicale. Il regista ci ha detto: “Qui togliete tutto”. E noi abbiamo scelto di andare in fade out. Dopo l’apice musicale, quindi, si avverte uno svuotamento e, nello svuotamento, il solo respiro dei personaggi che andavano a comporre il quadro. Questo ha creato grande sinergia. Abbiamo capito che il silenzio è parte integrante della colonna sonora. Lo è anche quando un personaggio improvvisamente fa una pausa dopo aver urlato. Lì arriva l’emotività, che non arriverebbe se ci fosse solo musica. Ho avuto la fortuna di incontrare e frequentare Mario Monicelli, una delle persone più illuminanti della mia vita. Diceva sempre: “Ma poi tutta ‘sta musica! La musica la mettete perché la scena non funziona”. Effettivamente il problema è questo, si tende sempre a irrorare il film di troppa musica. Bisogna stare attenti. Molti musicisti ci insegnano che, laddove c’è un magma o un suono impercettibile, questo entra nei silenzi e nei respiri degli attori. Ed è lì che bisogna lavorare di più, restando sotto la drammaturgia dell’attore. Altrimenti si rischia di andare oltre. Miscelare e mixare bene tutto questo è difficile. Non spetta a noi dire se ci siamo riusciti o meno».
Il lavoro è indubbiamente certosino.
«La scelta dei suoni è stata molto lunga. Dovevamo trovare suoni che fossero proprio parte integrante di ciò che guardavamo. Siamo in un carcere e lì con gli effetti abbiamo lavorato tanto. Abbiamo deciso di lavorare proprio con le persone che curavano gli effetti. Perché, quando i rumori entrano in vibrazione nella parte musicale, accade qualcosa che crea emozione. Il sound designer di un film è una delle figure più importanti ed è il motivo per cui andiamo in sala. Il famoso 5.1 o il Dolby Atmos lo avverti solo in sala, in casa lo perdi. La sala è soprattutto suono e vibrazioni. Abbiamo la responsabilità di entrare in sinergia con i reparti tecnici. Così come i musicisti hanno le candidature, anche i tecnici le meriterebbero al David di Donatello».
Da produttrice probabilmente ne sei più che consapevole.
«I reparti sono la base del film. C’è uno studio dietro. Per L’Ombra di Caravaggio hanno cercato le stoffe adatte, per farle suonare in un certo modo. Il film ha un’attenzione particolare alla parte di sound effect. Nelle scene in carcere sentirete, nel silenzio della sala, i suoni che vibrano. Un movimento ondulatorio del suono».
Ma la sfida più grande qual è stata?
«Sai, quando è morta mia madre ero disperata. Mi dicevo: “Come farò a fare un film tra tre mesi con un peso nel cuore così profondo?”. Il coraggio scatta quando perdi tutto e non resta nulla. Cosa c’è di peggio della morte? Mi son detta che era un gioco, una follia. Mettere insieme 13 milioni di euro era un’impresa. Eppure, pezzo dopo pezzo sono riuscita a costruire il budget. Sicuramente l’aspetto più difficile è stato questo, oltre alla sfida di concretizzare, da un punto di vista visivo, l’aspetto materico dei quadri. Avevo in mente una grande qualità, ma non avevo budget. La forza mi è venuta perché mia mamma non c’era più. Probabilmente ho fatto uno scatto di vita che mi ha fatto capire che peggio di così non poteva andare. Dopo tutto è stato in salita, in studio con Umberto è stato bellissimo. Con lui ho trascorso i momenti più belli degli ultimi miei dieci anni di vita».