A cura di Lorenzo Sandano
Essere fieri nel recitare la parte del ‘fuori carta’; del commensale indesiderato; dell’ingrediente non dichiarato che finisce per ribaltare le sorti (in meglio) nella riuscita finale di un piatto.
È come mi sono sentito – dalla scena di esordio sino ai titoli di coda – durante la visione in anteprima del film The Menu, presentato in preview nazionale nella sezione Grand Public della 17esima edizione della Festa del Cinema di Roma.
La mia professione, quella del narratore gastronomico a tratti costretto a indossare i panni del critico da circa 13 anni, mi ha traghettato verso la sala di proiezione con una dose sostanziosa di preconcetti riguardo l’ennesima pellicola rivolta alla cucina. Soprattutto in un mondo (e in un periodo) in cui lo star chef system dilaga, abusando di concetti che minano giornalmente la mia passione per questo settore. Mai sono stato più felice di ricredermi rispetto il nuovo film di Mark Mylod. Regista, tra l’altro, decisamente più ferrato su altri modelli cinematici che su questo genere di lungometraggi. Eppure, quel che atterra in tavola, pardon sul grande schermo, è a dir poco brillante, sagace, magnetico e incredibilmente appetibile sia per un gastronomo ‘intossicato’ di nozioni culinarie (come il sottoscritto) sia per un pubblico più ampio e variegato.
Le portate scelte per questo ‘menu degustazione’ di 106 minuti appaiono tanto semplici, quanto eseguite con la maestranza di un cuciniere veterano. Capaci di catturare lo sguardo dello spettatore in una trama che abbina, come in una ricetta ben orchestrata: british humor dalle note pungenti, acuti thriller che assaltano le papille gustative e un climax di contrappunti (tra fotografia, scelta del cast, tempistiche, complessità dei contenuti e recitazione) capaci di stregare anche i palati più esigenti.
L’amuse bouche della storia, atto a solleticare l’appetito, è quello di un gruppo meticcio di personaggi coinvolti in un’esperienza gourmet elitaria (1250 euro a coperto!) in un’isola sperduta, dedita solo all’ospitare un lussuoso ristorante, la squadra che vi lavora e il suo ultra-acclamato Chef. I sapori iniziali, tra l’aperitivo in barca e l’attracco con visita della struttura, vertono sulle morbidezze della commedia, svelando già la nuance di sapori più accesi degli assaggi seguenti. Complici i ruoli sociali e le rispettive performance dei protagonisti coinvolti a cena: un foodie-influencer deviato dal fanatismo con un’accompagnatrice apparentemente fuori luogo (lei, la bravissima Anya-Taylor Joy, l’elemento outsider in cui mi sono rispecchiato); una critica gastronomica d’alto rango totalmente autoriferita, con il suo succube editore pronto ad assecondarla in ogni gesto; un attore mediocre in declino aggrappato agli sgoccioli di celebrità in compagnia della sua pretenziosa amante; un trio di spavaldi addetti al settore affiliati all’imprenditore del ristorante stesso; una coppia di signori abbienti, habitué del locale, sull’orlo della crisi di nervi.
Nell’arco del pasto, piatto dopo piatto (ognuno corrisponde a un cambio scena/capitolo), si delineano simultaneamente i tratti caratteriali di ogni cliente, il motivo reale che li lega nel ritrovarsi insieme presso lo stesso ristoro e soprattutto affiorano i toni più cupi del film in una magistrale digressione stilistica dalla comicità al noir più tagliente: senza mai troncare di netto da un genere all’altro, bensì lasciando che queste timbriche convivano sino alla fine in estroso equilibrio tra il pulp e il grottesco.
Chiave di volta è incarnata dal celebre cuoco (Ralph Fiennes, Slowik nel film), fautore della cena e di un macabro piano omicida/suicida. Proprio lui, pervaso da austerità dialettica e devozione distorta per il proprio lavoro, sceglie di vendicarsi con chi lo ha ferito in passato (ogni ospite è colpevole per un motivo diverso) e che è andato ad avvelenare la sua professione, spegnendo irrimediabilmente l’impeto passionale che lo legava alla cucina. Per questo architetta un menu esclusivo, da servire durante il suo ultimo servizio, che combacia con lo sterminio degli invitati, di se’ stesso e di ogni componente della brigata (consenziente e partecipe nell’attuazione del massacro).
Ammirevole, per un gastronomo come me, notare lo studio certosino attuato dalla regia e dagli autori nell’immortalare (anche in foggia caricaturale) dettagli tecnici, rituali e psicologici rivolti all’habitat ristorativo, nonché agli elementi che ne fanno parte con una scrupolosità integralista e mai pesante da digerire.
La cena – che nel crescendo di eventi e vivande si tramuta facilmente in una strage di ogni presente (staff incluso, appunto) – è un pretesto per avviare una sottile analisi sui comportamenti distorti della nostra società e sul lato oscuro dell’alta ristorazione attuale, conservando un piglio critico e non giudicante pronto piuttosto a lasciare margini di interpretazione su chi sia realmente la vittima o il carnefice. Come la storia dell’umanità ci insegna, quasi ogni grande avvenimento o decisione per la collettività si discute a tavola: ecco, Mylod cavalca egregiamente il potere del convivio per riconsegnarci spunti trasversali, riflessioni umanistiche, sociologiche e introspettive, condendo il tutto con una fluidità cinematografica da applausi.
Verso la portata conclusiva risulta facile parteggiare per lo Chef nel suo delirio dovuto ai torti subiti, ma la figura più significante (difatti unica superstite all’uccisione di massa) rimane la già citata Anya-Taylor Joy (Margot): ragazza di compagnia a pagamento, coinvolta al banchetto per pura follia autoriferita dal maniacale foodie (un eccellente Nicholas Hoult, unico a conoscenza del piano del killer). L’attrice, ritrae col suo atteggiamento cinico, indifferente, verso il cibo gourmet e con il suo successivo istinto di sopravvivenza, un punto d’osservazione autentico e fuori rotta con cui risulta liberatorio schierarsi (soprattutto per chi è coinvolto in questo mondo come me).
È così che lei, un fuori-menu fatto persona, riesce a salvarsi dopo mille peripezie ordinando un fuori-menu che trasuda il concetto di comfort food e di cibo riconoscibile, in evasione da qualsivoglia pretenzioso esercizio fine-dining: un hamburger. Richiesta ‘di pancia’ che sfida l’orgoglio del cuoco riaccendendo in chiusura anche il suo istinto passionale e che restituisce allo spettatore un quadro di umanità commestibile a 360 gradi. Espediente appetitoso e ben impacchettato a tal punto, che nella scena conclusiva – mentre la protagonista sferra un morso trionfale al panino fuggendo dall’isola in fiamme – l’impulso naturale e quello di correre a mangiarne uno fuori dalla sala. Affamati di verità, passioni e speranza per le sorti di questo combattuto settore enogastronomico.